Premiazione del concorso di narrativa
“L’immagine parla”
Anche per quest’anno si è conclusa l’ XI Edizione del Concorso di narrativa L’IMMAGINE PARLA organizzato dall’Associazione culturale palazzolese IL MAESTRALE.
La giuria è stata presieduta dalla sig.ra Elena Alberti Nulli , poetessa e scrittrice, in collaborazione con altri 4 membri e tra questi Egidio Bonomi, scrittore e giornalista del Giornale di Brescia, il dott. Lino Marconi, medico e scrittore, il dott. Fabrizio Leidi, già direttore del Sistema Bibliotecario Ovest bresciano e di Giorgio Scroffi, docente e scrittore, esperto in didattica della poesia. La Giuria ha decretato il vincitore del Concorso cui è andato il premio di 1000 euro:
1) LUCA DONINA, di Cedegolo, Brescia, con il suo racconto “TUTTA COLPA LORO”, un racconto definito dalla presidente di giuria “ bello, fresco, incisivo, sincero ”.
A seguire, in seconda posizione, il racconto di:
2) LYUBA CENTRONE di Gioia del Colle, Bari, dal titolo “GLI ILLESI”, ”Scritto con una raffinatezza, una sobrietà e anche una ricchezza di allusioni di ulteriori storie che ne valorizza lo spessore”…..
Terzo classificato il racconto di:
3) MARIA GIULIA BALDUCCI, di Milano, con “L’ULTIMO TRATTO” definito dalla giuria “ senza ipocrite ritrosie”…
Gli scrittori premiati erano tutti presenti per ricevere i vari doni previsti dal regolamento del Concorso..
La Cerimonia di Premiazione, coordinata dal presidente del Maestrale, Adriano Arcangeli, si è tenuta alle ore 17,00 in Palazzolo sull’Oglio il 7 ottobre presso il Polo culturale della Biblioteca Civica di Lungo Oglio Cesare Battisti alla presenza di un pubblico numeroso. A fare da cornice alla manifestazione un gruppo di allievi dell’Accademia musicale “Riccardo Mosca“ di Palazzolo che si sono esibiti con intermezzi tra le varie premiazioni. Momento particolarmente suggestivo è stato la lettura integrale dei tre racconti classificati dal terzo al primo, letti da Bruno Noris, attore e doppiatore palazzolese, molto affermato nel campo del teatro, al suo attivo collaborazioni con Strelher al Piccolo di Milano.
Dei racconti, oltre ai tre classificati ai primi posti su un numero di 200 racconti pervenuti da tutta l’Italia, la giuria ne ha selezionato altri 7 , particolarmente significativi; questi i nominativi, la classifica e i titoli:
4° Sala | Teresa | LE STELLE SONO TANTE | Mottalciata BI |
5° Chiari | Daniele | LA GIRANDOLA | Palazzolo sull’Oglio |
6° Gandini | Gianni | LA REGOLA DI AMOS | Albiola CO |
7° Benelli | Luisa | UNA ROSA PER GLI EROI | Crema |
8° Mannella | Erika | Il SEGRETO | Genova |
9° Bignotti | Alessia | L’INCANTEVOLE CORAGGIO DELLE STELLE D’INVERNO | Ospitaletto BS |
10° Brioschi | Roberta | UNA COLLANA DI PERLE | Mezzate MB |
Gli scrittori sono stati premiati con un attestato ed è stato consegnato loro il libro raccolta dei racconti di questa edizione, 100 per l’esattezza, dal titolo “Tutta colpa loro”, anche titolo del racconto vincitore. Fiori per le signore gentilmente offerti dalla Cooperativa sociale Palazzolese, da anni sponsor di questa iniziativa insieme alla Lampozippers di Lanfranchi.
Nel contesto della manifestazione è stata inaugurata la MOSTRA “I FOTOGRAFI DEL GRUPPO ISEO IMMAGINE PER FLOATING PIERS”.
Infatti il gruppo Iseano ha gentilmente offerto l’immagine incipit di questa XI Edizione, fotografia scattata da Gianfranco Foresti qui di seguito pubblicata. La Mostra, tutta ispirata all’evento mondiale dello scorso anno sul lago d’Iseo, sarà aperta fino al 22 ottobre p.v.
La cerimonia si è conclusa con il consueto momento conviviale offerto dall’Associazione IL MAESTRALE.
Racconto vincitore del Concorso
“Tutta colpa loro”
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di Luca Donina
Cedegolo – BS
… Un racconto definito dalla presidente di giuria “ .. bello, fresco, incisivo, sincero ..”.
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Mica te lo dicono, che poi è così. No no, per niente. La buttano lì, leggera come il lenzuolo che vola quando la mattina la mamma rifà il letto. “Andremo in gita nel Nord della Francia, ragazzi, visiteremo Parigi, vedremo Versailles, faremo Le Havre, e nel ritorno passeremo dalla Normandia dove c’è stato lo sbarco degli americani, come abbiamo studiato quest’anno”. Tu sei lì seduto all’ultimo posto che neanche ascolti, tra una battuta col compagno di banco e la solita partita a tris sul foglio, che alla parola gita hai già smesso di ascoltare il resto e ormai sei già partito con la mente, che il cibo (cosa cacchio sarà questa novelle cuisine, finalmente forse lo scopriremo), che la Reggia, che lo stadio del PSG, che la Bastiglia, che i francesi antipatici e le francesi bellissime, che il loro Louvre con la nostra Gioconda, che state attenti perché veniamo a riprendercela, razza di mangia-baguette che sapete solo rubare e perdere, e PO-PO-PO-PO-PO-POOO-PO e il cielo è blu sopra Berlino, Beppe.
E nessuno te lo dice. Ti senti protetto. Avvolto nei tuoi jeans dal cavallo basso, sicuro nelle tue scarpe da ginnastica bianche firmate Adidas, con quel ciuffo biondo ingellato sul davanti, le cuffie nelle orecchie. Non hai motivo di pensarci. Arriva il giorno della gita ed è una figata. D’accordo, i francesi non se ne vanno proprio in giro tutti con gli strani cappelli e le magliette a righe e il pane sotto il braccio, la cucina è buona ma-non-eccezionale (tipo che le lasagne della nonna sono mille volte più buone) – almeno le ragazze però sì che sono bellissime – e poi è il quarto giorno lontano da casa, nell’hotel con gli amici di scuola, tra risate e scherzi e birre di nascosto in camera, e ti senti al sicuro.
Perché nessuno ti ha avvisato. Cioè, forse l’hanno fatto, e tu eri troppo impegnato ad ascoltare in cuffia l’ultimo di Kendrick Lamar. Ma no, se anche l’avessero fatto, se anche ci avessero provato, non saresti comunque stato pronto. Perché nessuno ti può spiegare una roba simile, nessuno ti può dire che poi sarà così.
In testa hai il ricordo della Tour Eiffel, che hai visto più o meno ventiquattrore fa, e sei felice e in preda all’euforia da overdose di zuccheri che state assumendo sotto forma di caramelle negli ultimi sedili del pullman. Mentre parcheggia, non ci pensi quasi neanche a dove siete, nel posto in cui state entrando. È un monumento come gli altri, probabilmente la tappa più noiosa della gita, nonché l’ultima, ovvero quella che precede il ritorno a casa. E anche mentre entrate dal cancello ancora non sospetti nulla, in fila ovviamente sempre all’ultimo posto e troppo preso a ridere dello strano accento della Guida che inizia a vomitare frasi. Poi cogli alcune parole, e inizi a prestare sempre più attenzione.
Più di diecimila morti? Figata! Chissà quanto sangue, uno splatter tipo Resident Evil! La fila avanza, mentre la guida con la sua pronuncia aggiunge dei dettagli sempre più macabri alla vicenda. Il sole sparisce per un attimo coperto da una nuvola, ed è allora che volgi la testa verso destra. E il cuore smette di battere.
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9387 croci.
Bianche.
Tutte uguali.
Allineate perfettamente in righe e in colonne.
Alla stessa distanza una dall’altra.
Novemilatrecentoottantasette croci.
Come pedine degli scacchi. Come stuzzicadenti. Come bastoncini del gelato.
Novemila. Trecento. Ottanta. Sette.
Altri millecinquecento hanno i nomi scritti sulle targhette in un muro dall’altra parte.
Il bianco è candido più di ogni altro bianco che hai mai visto in vita tua. Il prato inglese con quell’erba tagliata finissima è ordinatissimo, elegante oltre ogni misura. Puoi guardare le singole file, in verticale o in diagonale, e non trovi niente fuori posto. L’effetto è ipnotico, ma sembra quasi che voglia cercare di trasmetterti un senso di tranquillità, una specie di ordine in mezzo al caos che dev’esserci stato, quella mattina, di giugno, del ’44.
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Ora respira. Non sembrava così quando hai visto “il Soldato Ryan” in TV, che quel nome ti ha sempre ricordato Ryan Giggs, il calciatore dello United di cui tuo fratello ha la maglietta, e che poi nel film c’era anche Vin Diesel, che poi guidava i bolidi in “Need for Speed”, e insomma due associazioni mentali così mica possono essere cose brutte. E tutte quelle esplosioni, quella gente che saltava sulle bombe, quei cecchini sulle torrette, in fondo mica sembrano poi brutti, anzi ti pompavano dentro l’adrenalina.
Ma questo non è un film. Non è una finzione. È solo la dannata e maledetta realtà. Che sa essere mille volte più brutale e crudele delle cose finte. Ma non te ne rendi conto finché non ci sbatti il muso.
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Il fatto è che, no, mica te l’avevano detto che poi era così.
È tutta colpa loro. Ti dovevano avvisare.
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Ti dicono che sono settanta ettari, e tu non sai quanto è un ettaro ma sai che è tanto, troppo. Su un muro ci sono altre millecinquecento targhette, ti dicono che sono i dispersi o quelli non identificati, e tu non sai che cosa vuol dire essere uno di quei tremila genitori che non ha mai visto tornare il figlio ma sai che è un dolore immenso, eccessivo. Infine, ti dicono che oltre a questi ci sono invece altri quattordicimila corpi che sono tornati negli USA, e tu non sai cosa vuol dire essere uno di quei ventottomila genitori che ha visto tornare il proprio figlio avvolto da una bandiera e lo ha dovuto seppellire ma sai che è un qualcosa di indefinibile, che va oltre.
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E quindi ora sei lì, seduto immobile in ginocchio di fronte ad una delle tante croci, pallido quasi come la croce stessa, che non riesci a spiaccicare parola e fai fatica pure a buttare aria nei polmoni. Gli occhi umidi ed arrossati, stai per piangere. Non l’hai fatto quand’era morto tuo nonno, non l’hai fatto quando ti eri rotto il braccio cadendo in moto, ma succede ora, di fronte alla fredda lapide a forma di stella di tale Ronald Klein, sconosciuto soldato che ci ha lasciato le penne nel quarantaquattro.
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Poi la gita finisce, torni a casa. Le risate, sui sedili in fondo del pullman, hanno lasciato il posto ad uno strano silenzio. Magari la guerra non è poi così bella come fanno vedere in televisione, ma questo l’hai capito anche senza che te lo dovessero dire.
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Entri dalla porta di casa.
“Allora, com’è andata?”, chiede sorridente la mamma.
“Dovevate dirmelo”, rispondi.
“Dirti cosa?”.
II° classificato
“GLI ILLESI”
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Lyuba Centrone
Gioia del Colle – BA
…”Scritto con una raffinatezza, una sobrietà e anche una ricchezza di allusioni di ulteriori storie che ne valorizza lo spessore”.
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«La grande sconfitta, in tutto, è dimenticare, e soprattutto quel che ti ha fatto crepare, e crepare senza capire mai fino a qual punto gli uomini sono carogne. Quando saremo sull’orlo del precipizio dovremo mica fare i furbi noialtri, ma non bisognerà nemmeno dimenticare, bisognerà raccontare tutto senza cambiare una parola, di quel che si è visto di più schifoso negli uomini e poi tirar le cuoia e poi sprofondare. Come lavoro, ce n’è per una vita intera.»
Luis-Ferdinand Céline, Viaggio al termine della notte.
Non una parola su Birkenau. Con gli anni mi ci ero rassegnato all’oblio, all’idea di non sapere, e anzi, c’è stato un periodo, poco prima del liceo, durante il quale mi ero convinto che in realtà l’eco di quella storia, che solo in rare occasioni aveva sfiorato le mie orecchie, fosse una macchinazione, un’invenzione messa in piedi dai miei per avere anche noi, come tutti, una valorosa fetta di infelicità. I litigi con mio padre e le sberle di mia madre, all’epoca, avevano finito per alimentare uno spasmodico desiderio di scoperta, ma il silenzio di mia nonna era una pietra tombale. A cosa serve raccontarle certe cose? Qualche oh, usuali mi dispiace, pianti cortesi. Un dolore di circostanza di cui non avevo responsabilità, ma che mi apparteneva lo stesso. Nonna lo sapeva il motivo del suo silenzio. Lo sapeva per forza. L’essenza non la si spreca in sbrodolii e rumori gracchianti: era per questa ragione, mi convinsi, che lei se li teneva lì sotto, dentro la pelle, i ricordi. Le parole li degradano, in effetti, con il loro corollario di saliva e orride deformazioni mandibolari. Versacci vani con cui esprimere l’infinito. Bella beffa.
Il racconto di Birkenau, sopito, sbiadito, imbavagliato. E io, in piena adolescenza avevo già letto tutti i libri, tutti i poeti, tutto il firmamento dei romanzi sulla Shoah. Conoscevo tutto a memoria. Tutto, tranne i ricordi di mia nonna, Liliana Segre, che se li teneva in bocca, annodati alla gola, come i denti del giudizio.
Lei viveva in casa con noi da prima ancora che io nascessi e le vicende spaventose dovevano esserle successe in un tempo lontanissimo, molto più lontano della nascita di mio padre, suo figlio. Quando e come scoprii i rimasugli di questa storia ancestrale, non saprei dirlo. Forse ci nasci con certe consapevolezze, oppure qualcosa doveva avermela detta lei di fronte alle domande benevoli, da parte mia, esserino per bene, che a cinque anni imparava a contare e a pronunciare ad alta voce il numerino a cinque cifre che le spuntava tra le pieghe della mano sinistra. 36548. Tre. Sei. Cinque. Quattro. Otto. Trentaseimilacinquecentoquarantotto. Trentasei-Cinquantaquattro-Otto. Tre. Sei-Cinque. Quattro-Otto. Stop.
Le impertinenti curiosità, che creavano scompiglio in casa, dovetti ingoiarmele a suon di schiaffi ed inevitabilmente crescevano dubbi sulla possibilità che la storia del campo fosse una farsa, un’astuta farsa. Ma per quale motivo? Di sicuro mia madre, con la sua indole sinistra, avrebbe spinto mio padre a trarre i dovuti vantaggi da quella tremenda storia. Invece, no, anche lei zittiva.
Sguazzavo in un guazzabuglio di mistero al quale piano piano mi abituavo. Intanto facevo pratica con miriadi di numeri, imparavo le lettere, la matematica, la trascrizione fonetica, perfino il greco stavo imparando, una volta cresciuto e anestetizzato dalla fissazione per il liceo artistico, che non mi fu mai concesso. La vita non è che un eterno rifiuto, fino a quando resisti ti viene facile vivere, ma se ti capita una smania, una fantasia, quella ti fa tin-tin per sempre. Tuttavia, ripulito ben bene dalle mie stupidaggini, mi iscrissero al liceo classico, senza nemmeno dirmelo, un liceo classico cattolico per giunta, come voleva mia madre, cattolica anche lei. Mi ritrovai disperso in una diroccata villa in campagna con altri ragazzini sfortunati come me, lontani da casa e in preda ai desideri più atroci. Mia nonna, in quel tempo, invecchiava indifferente mentre io, lontano, perdevo bellezza, fabbricavo peluria e mettevo su una voce smargiassa. Il liceo era una costruzione antica e irregolare. Il giardino intorno era ampissimo e circondato da un possente muraglione sul quale svettavano lucenti cocci di bottiglia. Non lo dimenticherò mai quel postaccio. A noi, poveri studenti, era consentito usufruire del paesaggio oltre il muro solo la domenica quando, con il sacrestano, andavamo a messa a sprecare il tempo delle perversioni in canti e suonate abominevoli. Lì dentro passai cinque fetenti anni studiando qualsiasi cosa e districandomi nei primi affarucci sessuali.
L’estate della maturità, scarcerato dal liceo con un onesto cinquantadue, speravo finalmente di evadere. Invece mi rinchiusero di nuovo. La villeggiatura, quello splendido supplizio. Eravamo tutti e quattro nella casa al mare a Castiglion della Pescaia immersi nella luce pervasiva dei giorni tristi. Io, papà, mamma e nonna ad odiarci intensamente. Come lucertole imputridivamo al sole della villeggiatura laddove tutto è festoso, persino gli incubi notturni.
Che fai in villeggiatura? Ti stendi sul divano e aspetti che finisca. Poi però, qualcosa ti travolge, è inevitabile, e interrompi l’attesa. Lei mi interruppe cadendo. Cadde sì, di lungo. Rovesciata sul pavimento come un affare che cade e si rompe. La guardavo da un po’ camminare su e giù, m’ipnotizzava con il baricentro spostato in avanti, passi sottili, strascichi di piedi. Tutta assolata, una vecchia madonna d’oro, bagnata dal sole pesante del primo pomeriggio. Stavo giusto pensando alla sua evidente fragilità, che un giorno avrebbe pagato, quando d’improvviso inciampò sullo spigolo e poi sul piede e poi sbadabum, si arrese. Si ruppe tutta mia nonna, senza sconti. Tutta in frantumi. Io feci a malapena il gesto di sollevarla. Che sarcasmo: uno sopravvive ad un campo di sterminio, poi prende uno scivolone in casa e la vita eroica di prima, tutte le sassate a cui è sopravvissuto, sfioriscono di botto: è questo, io credo, la vita. Uno scherzo.
I miei non ne furono amareggiati, non fa mai dispiacere liberarsi di un ospite, di una bocca da sfamare, specie se non fa reddito: dopo qualche attimo di costernazione, mia madre ha subito predisposto tutto, un vero talento nel mettere a posto le cose mia madre, e in un modo così preciso che non mi stupiva pensare che gliel’avesse procurata lei, con qualche maleficio, la caduta. Anche perché, è bene dirlo, la puzza del rancore inesploso, in casa nostra, odorava di morte già da un po’. In men che non si dica, chiusa la portiera dell’ambulanza, l’hanno lanciata a tutta dritta in ospedale, come un fagotto. In quella scatola di metallo tuonante, mia nonna era già un’estranea, l’eterno ospite che andava via e noi, gli illesi, piangevamo, mentre sognavamo già i riusi della sua stanza.
Mi sentii più grande in un solo giorno, come se fossi scivolato anche io da uno scivolo che ti porta giù, velocissimo. Con il tempo ho perso gli umori estremi, gli odi, la determinazione. Ho perso le smanie di essere diverso e acquisito il controllo, quella specie di visione d’insieme che uccide l’indole, neutralizza la volontà e ti fa scordare la felicità. Dopo quella storia, mi trasferii lontano da casa per fare l’università. Economia e commercio. Oggi sono un amministratore e al diavolo l’amarezza dei poeti. I miei sono diventati sempre più estranei, creature sbiadite, io intontito dalle donne, dai soldi, le stravaganze.
Ogni tanto, però, ci pensavo a mia nonna. Non per nostalgia, ma per quel senso di morte che ogni tanto mi prendeva e allora mi chiedevo se anche io sarei finito in quel modo barbaro. Fu per questi piccoli sensi di colpa che un bel giorno decisi di prendere una pausa dall’ufficio per mettermi in macchina verso Roma, alla volta dell’ospizio dove lei viveva. L’ultimo viaggio, senza saperlo, in quel posto che a mala pena avrò visitato una decina di volte.
Diciotto maggio, un giorno dolcissimo, né caldo, né freddo. Il sole quieto e favorevole, arietta fresca sulle colline. L’ospizio sorgeva in una specie di bosco e all’esterno dell’edificio si esibiva la centenaria società che lo abitava. Vecchietti grinzosi: le donne grasse, gli uomini asciutti. Si sentiva una sorta di cicaleccio, interrotto, ad intermittenza, solo dal suono sgradevole degli sputi. In quell’ambiente malsano mi sentii d’un tratto sollevato dalle colpe e varcai il portone rinvigorito da quel nuovo temperamento. Avvertii la prima infermiera che mi capitava a tiro che ero il nipote della signora Segre. Lei, mi salta all’indietro. Io che non capisco, le chiedo se è tutto a posto. Ma la signorina era imbarazzata, visibilmente incapace di affrontare la questione. Successe così: mi accompagnò nell’ufficio del direttore annunciandogli chi ero. Lui, di mestiere, non ebbe alcun sussulto, al contrario dell’infermiera, e mi spiegò, con grande cortesia, che mia nonna era morta la sera prima, ma che per un problema con le linee telefoniche non avevano potuto avvisarci subito. Dimostrò meraviglia per la mia venuta e la attribuì a qualcosa di divino. Io, non so che mi prese. Niente mi sembrava vero: il viaggio in macchina, la notizia della morte. Anzi, mentre il direttore mi accompagnava all’obitorio, iniziai a pensare a certe carte che avevo lasciato in ufficio e che dovevano essere spedite in giornata. Avevo bisogno di un telefono, ma era tardi, eravamo già di fronte al cadavere. Luce gelida, bara di plastica grigia. Per il mogano bisognava firmare il contratto con quelli delle pompe funebri. Un vecchietto era seduto di fianco alla bara. Camicia bianca stirata. Ci guarda. Il direttore mi spiega che era la persona più cara a mia nonna lì dentro. Fa un cenno, lui si alza a malapena e si viene a presentare. Rimaniamo soli. «Eravamo insieme a Birkenau – mi dice tra le parole di circostanza – io distribuivo casacche e lei era l’addetta alla raccolta dei denti d’oro». Fui lieto di conoscerlo, lo ascoltai per un po’ e notai il tatuaggio, sbiadito, ma leggibile. 36465, sì era a Birkenau con lei. Sicuramente. Mi disse che la nonna voleva farsi seppellire in un cimitero cattolico, ma avere una lapide con la stella di David. E poi mi disse anche che aveva lasciato per me un quaderno, dentro l’armadietto in camera sua. Nient’altro. Lo ringraziai ancora. Ci sedemmo uno di fronte all’altro. Il tempo stagnava, mia nonna era come la ricordavo. Dopo un po’ la luce del neon cominciò a darmi fastidio e anche la sedia diventava scomoda, così l’ho girata e l’ho messa come quella del vecchio. Non c’era altro da dirsi. Lo sapevo che mi odiava, me e i miei. Ma non lo dava a vedere, mi guardava solo ogni tanto e sorrideva. Per il resto, era sempre fisso su mia nonna. Dopo un po’ mi sono alzato e ho cercato un’infermiera. C’era quella che mi aveva fatto entrare all’inizio e lei mi ha ribadito del rito cattolico e che potevamo portarla in chiesa o far venire il prete direttamente lì. Meglio il prete lì, le dissi e subito è corsa dal direttore a riferirglielo e a ritirare il malloppo di carte che mio padre avrebbe firmato al suo arrivo (intanto le linee si erano riprese). Tornato nella stanza, ho preso una sigaretta e sono uscito ancora per andarmela a fumare fuori. Il vecchio era impassibile. In cortile l’azzurro del cielo stingeva in un grigio plumbeo e il passaggio delle nubi aveva lasciato sulla strada come una promessa di pioggia. In quel torpore sono rimasto ad osservare il cielo, rilassato. Nonna era morta e l’indomani sarei tornato in ufficio, tutto sommato, pensavo, non era successo nulla.
III° classificato
“L’ULTIMO TRATTO”
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MARIA GIULIA BALDUCCI
Milano
…definito dalla giuria “senza ipocrite ritrosie”.
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Il vecchio si alza, senza badare ai dolori alle ossa, alla tosse che lo tormenta. Con lentezza va in bagno, poi si scalda il caffè. Sono anni che non serve più preparare un’altra caffettiera. Per la moglie, che se ne era andata in due mesi dello stesso male di cui anche lui si era ammalato. Lui l’avevano curato ed ora è lì, vent’anni dopo. Succede a volte che dimentichi che giorno sia; a volte apparecchia per due e, se arriva la figlia, finge di averlo saputo in anticipo. Anche la figlia finge, perchè tanto non serve a nulla ripetersi quello che aveva detto il medico. Demenza senile. L’importante è prendere le medicine – non per sopravvivere, al vecchio non importa. Ma per non essere un peso: per tutta la vita gli avevano detto che aveva un problema al cuore e ora aspetta che il suo cuore si fermi, prima del suo cervello. Non ha paura della morte: non perché creda in un al di là in cui avrebbe incontrato la moglie, i fratelli, gli amici che lo avevano preceduto. Se gli avessero chiesto dell’al di là non avrebbe saputo cosa rispondere. Avrebbe voluto che la moglie entrasse dalla porta, con i suoi odori, i suoi capelli corti tagliati alla meglio, l’allegria negli occhi grigioverdi e quella voglia di parlare che lui troppo spesso aveva spento.
Anche quella mattina si era svegliato con in testa un’immagine, sempre la stessa da ormai troppi giorni. Non riesce a ricordare bene: un sogno, l’immagine di un film, un pezzo della sua vita. Una ragazza, coi capelli neri, ricci, che scendeva da un’ auto anni trenta, la porta tenuta aperta da un autista in livrea. Poi il vuoto. Quella mattina ha un’idea in testa. Si china a fatica verso il ripiano della libreria dove si trovavano in ordine vecchi faldoni d’ufficio. Era sempre stato un uomo ordinato e ogni faldone aveva un contenuto preciso, con tanto di etichetta. Prende quello che gli interessa, lo appoggia sul tavolo e comincia a sfogliarlo. Arriva velocemente alle foto più vecchie, lui e e suoi fratelli vestiti da figli della lupa, suo padre ad una parata militare e infine la foto di scuola che cercava. Pontedera _ Regio Ginnasio – classe seconda A – anno scolastico 1937/1938. La ragazza del sogno è lì, in mezzo alle altre, l’unica con i capelli crespi, tagliati all’altezza del collo, la riga di lato; l’unica con un vestito, mentre tutte le altre avevano gonna nera e camicia bianca, calzettoni grossi, trecce tirate ai lati. Tutti, maschi e femmine, guardavano dritti l’obiettivo, compreso lui, che si riconosce in un ragazzino magro, con gli occhi vivaci, accovacciato insieme agli altri maschi in prima fila, le ginocchia ossute, il cappello da balilla in mano. La foto è ormai color seppia, ma la ragazza spicca ugualmente, col corpo di sbieco e lo sguardo rivolto all’obiettivo, quasi una diva in mezzo a ragazzine. Il vecchio riconosce anche la propria sorella che era finita in classe con lui, dopo una bocciatura. Del resto era l’unica sezione del ginnasio a Pontedera: maschi e femmine di famiglie che potevano immaginarsi un futuro per i figli, diverso dal lavoro manuale. La guerra poi aveva scombinato le carte. Lui non si era diplomato, pur avendo frequentato il liceo scientifico. Non che se ne lamentasse: la sua vita l’aveva avuta. Era sempre stato leale con se stesso, con gli altri. Tanto da costituirsi quando i suoi commilitani erano stati presi, tanto da non dare retta al comandante del comitato di Liberazione che gli diceva di andarsene, che era solo un ragazzino. Lo sapeva di aver sbagliato, già da un po’; e aveva pagato, nel campo di Coltano, a scavare e riempire fosse sotto il sole cocente, finchè l’avevano lasciato andare. Di quel periodo ricorda il soldato nero che ordinava loro di scavare e riempire e i denti bianchi del soldato e il caldo e la mano di suo padre che gli passava la frutta, dopo un lungo viaggio da Milano e lui che divideva la frutta coi suoi compagni (no camerati), il succo delle pesche che scivolava dalla bocca e loro che nonostante tutto ridevano. Nonostante tutto. Nonostante gli errori, gli orrori, nonostante tutto quello che avevano fatto, visto, sopportato. Perchè erano giovani e pronti a ricominciare. C’erano cose che era meglio dimenticare, ma il vecchio, anche se non ne parlava, non aveva dimenticato. Gli dispiace che ora i ricordi spariscano, ma se ne fanno strada altri, così intensi che a volte li confonde con la realtà. Una volta aveva dovuto fermarsi sul marciapiede, attaccato con tutto il corpo ad un alto palazzo: sentiva il vento freddo sferzargli il volto, penetrargli nella divisa troppo larga e raggiungergli le ossa, mentre attorno a lui si faceva buio e il sentiero diventava invisibile, il moschetto sempre più pesante. Sul sentiero era rimasto tutta la notte, lui e altri tre. Il mattino li aveva sorpresi vivi e affamati, di cibo e di vita. Avevano guardato il sentiero così stretto, così scivoloso e si erano chiesti quanto fosse sano di mente il loro comandante, a mandarli lassù, in cerca di disertori. E uno di loro lo aveva detto: me ne vado, giù al comando non ci torno. Si era strappato la camicia nera ed era andato per un altro sentiero, appena più in basso. Avrebbero dovuto sparargli e forse lui se lo aspettava, ma non lo avevano fatto. Al comando avevano detto che era caduto durante la notte, nel dirupo sottostante il sentiero. Non che importasse a qualcuno: il loro comandante si era sparato, dopo averli spediti in quella missione suicida. C’era aria di resa. Il vecchio ora fatica a ricordare perchè si fosse arruolato. I pensieri gli si confondevano: suo padre che tornava a casa, con una camicia da civile prestatagli da un commilitone, l’aria spaurita anche di fronte ai figli, suo padre che non sapeva cosa fare e vendeva i libri, quelli belli, invecchiato e ingobbito all’improvviso. Il vecchio ricorda di come tutto quello che gli avevano raccontato, a scuola, alle parate, gli fosse caduto addosso e di quella volta che dei tedeschi ubriachi erano entrati in casa, ubriachi, e avessero fatto battute alle sue sorelle maggiori, finché lui era andato nell’altra stanza, aveva preso una pistola, li aveva minacciati e quelli se ne erano andati. Di come aveva pensato che non si poteva rinunciare ai sogni, che una bocca in meno da sfamare era meglio per tutti, che non si poteva lasciare in mano tutto ai tedeschi. Che non aveva capito e questa era la sua colpa. Che era solo un ragazzo non lo pensa perché allora si cresceva in fretta. Lo consola non aver ucciso nessuno, ma sa che é stato solo un caso. Ecco, ora gli si forma un’altra immagine. E’ sulle montagne dell’Alta Valtellina: una spia ha detto che ci sono ebrei nascosti in una cascina. Il comandante, quello che poi si è sparato, li ha portati fin lì, “prima dei tedeschi”. Quando arrivano trovano una donna che riporta le vacche nelle stalle, al collo una croce, e bambini che aiutano e giocano e poi scappano nella stalla: rimane solo la donna e una bambina, dalle trecce strettissime, che gli fissa gli occhi addosso. Lui non sostiene lo sguardo e così vede solo i piedi piccoli, sporchi, callosi. Il comandante grida alla donna – “gli ebrei!”; la donna gli dice in dialetto che ebrei non ce ne sono, lo giura sulla croce. Continua a giurare, anche quando il comandante le dice che le bruciano la stalla e la stanza vicina dove dormono, con bestie e tutto. Il comandante manda i suoi uomini verso un rialzo del terreno. E’ una specie di cantina scavata tra le rocce e il terreno, fresca in estate, dove i contadini conservano formaggi e vini. Dentro però cibo non ce n’è: escono un uomo e due donne. Li puoi dire contadini anche loro, ma hanno un modo diverso di muoversi. Si sono già arresi: la bambina si stringe alla madre e continua a guardarlo. Il comandante fa uscire i bambini: gli basta uno sguardo per isolarne due e metterli accanto agli altri tre giudei. Gli urla di mettersi contro il muro, anche alla donna che ha giurato sulla croce e alla bambina che le sta attaccata. Ordina ai suoi uomini di sparare: il vecchio è là, ora, non più nel suo salotto davanti ad una vecchia foto, ma là, tra gli odori del bosco e degli animali e della paura. Anche lui alza il fucile, anzi lo alza troppo, gli occhi della bambina puntati su di lui. Sa che sono suoi i colpi sul muro, troppo alti per uccidere, ma intanto a terra ci sono tutti e nessuno che si muova più. Lui, però, lo sguardo della bambina lo sente ancora addosso, vero come il muggito degli animali e il pianto dei bambini. I due ricordi si uniscono, nella sua mente si fa chiaro: la sua compagna di classe era ebrea, un’ebrea ricca. Era scomparsa poco prima delle leggi razziali: era una famiglia in vista, forse erano riusciti a scappare. Ne risente il nome, pronunciato dalla professoressa di latino, il primo giorno di un’assenza che non sarebbe mai stata giustificata: Eva Hegger. Il vecchio senza accorgersene piange: piange per la sua vita che se ne stava andando, per i nipoti che non aveva avuto, per la moglie morta, per la bambina che ancora lo guardava, per la ragazza che era scomparsa e nessuno di loro si era chiesto nulla. Piange per le sue scelte, quelle sbagliate e quelle giuste. Ha un nome, ora, e una storia che gli fa male. I ricordi cominciano a tornare: il fratello più grande di Eva che dà una rosa rossa a sua sorella, sorridendole. Eva che gli passa una versione di latino, strizzandogli l’occhio. Il loro ultimo giorno a scuola, identico a tutti gli altri. Il vecchio sa che può fare delle ricerche anche da casa: la figlia gli ha dato un vecchio computer, una connessione ad internet. Non ha mai cercato nulla, ma ora digita sulla tastiera quel cognome: escono troppi risultati, il vecchio si perde, si impaurisce. Poi trova una pagina sul cimitero militare di Omaha Beach, Normandia, e lì lo ritrova quel nome: è il nome del fratello di Eva, morto nello sbarco americano. Continua la ricerca: italiano, trasferito con la famiglia in America poco prima delle leggi razziali, la sorella morta mentre lui era al fronte, volontario. Eroe di guerra: combatte sul fronte più pericoloso, sprezzante del pericolo. La ricorda anche lui quella sensazione: che la giovinezza lo avrebbe protetto da qualsiasi cosa. Ma non era così: lo aveva visto in tanti sguardi di giovani morti, traditi da un senso di onnipotenza. Il vecchio non ha dubbi su quello che farà. Il viaggio è lungo, ma è l’ultimo tratto del suo cammino.Quando arriva al cimitero militare di Omaha Beach sono passati solo due giorni; con sé non ha nulla, neppure una borsa con un cambio, solo una rosa rossa. Entra nel cimitero, dopo aver congedato il taxista con gli ultimi soldi rimastigli. Non serve percorrere tutto il cimitero: un addetto gli chiede chi cerca e in un attimo ha una fila, un numero. Si incammina: la vede già da lontano, una stella di David, accanto a tante croci cristiane. Si avvicina, si china: non ha lacrime, quando appoggia la rosa rossa sulla tomba del giovane soldato morto. Le immagini si sovrappongono: la tomba, Eva, la ragazzina che non ha mai smesso di fissarlo. E’ stanco quando esce. La spiaggia gli pare lontanissima, ma è l’ultimo tratto del suo viaggio. La raggiunge e si sdraia, guarda il tramonto e sente le lacrime sul volto. Cade una leggera pioggia e l’oceano è blu intenso, mosso. Il vecchio guarda il mare e chiude gli occhi.
Lo ritrovano la mattina dopo, sulla spiaggia, senza vita. Nel cimitero la rosa rossa è sbocciata del tutto, si allarga nel bianco delle tombe sul verde prato.